L’AVVOCATO NON DEVE FARE INDAGINI SULLE FONTI DI REDDITO DEL CLIENTE

Recentissima l’ordinanza del GIP del Tribunale di Milano sul caso dei due avvocati penalisti indagati per ricettazione per aver ricevuto, sotto forma di compenso, denaro contante di “ritenuta” provenienza illecita. La giurisprudenza ha già chiarito come debba essere interpretato il dolo eventuale in questi casi, secondo il Tribunale ancora «maggiore cautela» deve essere serbata con riguardo alla peculiare posizione dell’avvocato penalista.

Egli ha fisiologicamente rapporti economici con soggetti quantomeno sospettati di aver commesso un delitto, cosicché l’eventuale consapevolezza della qualità criminale del proprio debitore, già insufficiente per i normali rapporti obbligatori, deve essere considerata irrilevante; se così non fosse, il difensore non potrebbe mai esigere il pagamento degli onorari dal proprio assistito

Il principio di proporzionalità richiede un approccio restrittivo alle eventuali incriminazioni a titolo di riciclaggio sul piano del coefficiente psichico, potendosi ammettere incriminazioni solo quando il professionista abbia piena ed attuale consapevolezza dell’origine delittuosa del denaro, lasciando fuori dall’area della rilevanza penale situazioni di mero sospetto.

In conclusione, un avvocato penalista può essere punito solo se ha acquisito, al momento dell’accettazione, la certezza che il denaro proviene da reato, senza che si possano imporre a questi obblighi di indagine sulle fonti di reddito del cliente.