LA VITA DI UN CLOCHARD NON VALE MENO DI QUELLA DI UN BENESTANTE

Ridurre l’indennizzo per l’ingiusta detenzione al senza fissa dimora, in considerazione della “subalternità culturale” (e della carenza di affetti) derivante dalla marginalità socio-economica, è discriminatorio: lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza numero 9486/2024, rimediando a una incredibile sentenza della Corte d’Appello di Milano. Questa, infatti, si era pronunciata in senso contrario, stabilendo che l’ingiusta detenzione di un senza tetto valga meno (del 30%) rispetto a un qualsiasi altro cittadino.

La ratio della pronuncia della Corte d’Appello è davvero difficile da comprendere (e riportare). Secondo il criterio standard, il cittadino sottoposto a ingiusta detenzione avrebbe dovuto ricevere 235 euro per ogni giorno di carcere. Ma i 107.630 euro, nel caso di specie, sono diventati 75mila: un taglio del 30% motivato dalla situazione personale del ricorrente, la cui condizione “almeno per il periodo, in cui fu sottoposto alla misura custodiale, era quella di un uomo che viveva in una situazione di accentuata marginalità socio-economica e di subalternità culturale”, in assenza “di rapporti affettivi di qualsivoglia natura”, e di una abitazione stabile. Tutti elementi che, per la Corte d’Appello, giustificavano una riduzione marcata dell’indennizzo per la carcerazione patita, in qualche modo mitigando il patimento naturalmente connesso alla carcerazione.

La Corte di Cassazione, come detto, ha ribaltato completamente questa visione, ricordando che la privazione della libertà non è meno dolorosa per chi si trova in condizioni di marginalità e solitudine: anzi, semmai l’opposto. Per essere ancora più espliciti, la vita di un senza fissa dimora – la possibilità cioè di esprimere la propria individualità e di seguire le proprie inclinazioni liberamente, fuori dal carcere – non vale meno rispetto a quella dei cittadini più benestanti, attesi magari da famiglie e da agi e lussi capaci di accrescere il tenore di vita. La Cassazione ha quindi ribaltato completamente la visione espressa dalla Corte d’Appello:

“In ultima analisi, i criteri utilizzati dalla Corte territoriale legittimano una diversa quantificazione del criterio aritmetico (nel caso di specie con una sensibile riduzione del 30%) a seconda della condizione sociale, di marginalità, piuttosto che di normalità o di privilegio, una situazione quest’ultima che alla luce di questi criteri, dovrebbe conseguentemente avere effetti opposti, di aumento del quantum”.

Insomma: la marginalità e la solitudine dovrebbero semmai causare un aumento, e non certo una riduzione, dell’indennizzo per ingiusta carcerazione. Le conseguenze potenziali derivanti dalla pronuncia della Corte di Appello, fortunatamente disinnescata e ribaltata dalla Cassazione, sarebbero infatti state lampanti. Ragionando a contrario – sulla base “principio rovesciato” di cui sopra – si dovrebbe infatti riconoscere un indennizzo più alto a chi vive nel lusso, magari in una villa con piscina, e può contare su solidi affetti: un’evidente assurdità, un controsenso logico che disvela la fallacia (e la natura intrinsecamente classista) della pronuncia d’Appello. Una pronuncia letteralmente smontata, pezzo per pezzo, dalla Cassazione: “per non parlare” – hanno concluso infatti i giudici – “dell’incomprensibile richiamo, pure utilizzato nell’ordinanza impugnata, alla subalternità culturale”.


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