FORNIRE INFORMAZIONI SULL’AIUTO A MORIRE NON È ISTIGAZIONE AL SUICIDIO

Un’interessante sentenza in tema di istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.), e più dettagliatamente sulla rilevanza penale del comportamento di chi fornisce informazioni sulle pratiche di suicidio assistito in Svizzera, arriva da una sentenza della Corte di Cassazione.

La vicenda da cui è derivata la pronuncia della Suprema Corte riguarda il caso di una donna di quarant’anni, affetta dalla sindrome di Eagle. Quest’ultima si era rivolta telefonicamente al Presidente di una nota associazione impegnata sul tema per ottenere informazioni sul suicidio assistito in Svizzera. I contenuti dei contatti nonché della corrispondenza tra i due (riguardanti la procedura avviata e i ringraziamenti per il supporto) erano stati poi pubblicati dall’uomo sul bollettino dell’associazione.

Sulla base di questi fatti la Corte d’Appello territoriale aveva condannato a tre anni e quattro mesi di reclusione l’imputato per il reato di cui all’art. 580 c.p. (istigazione al suicidio).

La Corte di Cassazione, invece, ha ribaltato il verdetto e accolto il ricorso dell’imputato, escludendo dunque che la sua condotta possa integrare la fattispecie criminosa di istigazione al suicidio.

Si legge infatti nella sentenza:

Quella configurata dall’art. 580 c.p. – si legge nella sentenza – “è nella sua sostanza una fattispecie plurisoggettiva necessaria impropria, atteso che alla produzione di uno degli eventi tipizzati dalla norma incriminatrice devono necessariamente concorrere l’azione autolesiva del soggetto passivo (di per sé non punibile) e la condotta del soggetto attivo del reato, che deve risolversi in una forma di istigazione, ossia nella determinazione o nel rafforzamento dell’altrui volontà suicida, ovvero di agevolazione dell’esecuzione del suicidio. Ferma restando l’inapplicabilità delle disposizioni sul concorso di persone nel reato, atteso che – come detto – la condotta autolesiva del suicida non integra di per sè un illecito penale, il reato è dunque integrato da una partecipazione morale o materiale all’ideazione od esecuzione dell’altrui proposito suicidario“.

E ancora:

La condotta dell’agente, per essere tipica, deve assumere una oggettiva efficienza nella causazione dell’evento del reato (Sez. 5, n. 22782 del 28/04/2010, Bagarini, Rv. 247519), la cui produzione deve comunque materialmente rimanere affidata all’azione del soggetto passivo, configurandosi altrimenti diverse ipotesi di reato, come quelle previste dagli artt. 575 e 579 c.p. Ed infatti per la legge penale, come sottolineato già nella Relazione al codice penale, il suicidio è un atto volontario compiuto personalmente per procurarsi la morte nella consapevolezza della sua natura autolesiva”.

Se la condotta di partecipazione morale “rappresenta dunque, sul piano condizionalistico, un mero antecedente necessario dell’evento“, in accordo con la dottrina più accorta “deve ritenersi, però, che, per risultare tipica, la condotta di partecipazione morale deve presentare un ‘intrinseco finalismo” orientato all’esito finale, sussistendo altrimenti il rischio di dilatare oltremodo il perimetro oggettivo della fattispecie fino a ricomprendere qualsiasi condotta umana che abbia comunque suscitato o rafforzato l’altrui volontà suicidaria comunque liberamente formatasi‘.

La Cassazione ha valutato dunque la sentenza impugnata “inadeguata nell’individuazione della condotta attribuibile all’imputato dei caratteri di tipicità della fattispecie contestata” e lacunosa dal punto di vista di una adeguata valutazione dei profili temporali e per questo ha annullato la sentenza della Corte d’Appello.