Altro che mode da giovanissimi e fenomeno transitorio: l’emoticon – il simbolo che usiamo tutti i giorni nelle nostre conversazioni per condensare concetti, emozioni, pensieri e stati d’animo – può diventare a tutti gli effetti una prova, e svolgere un ruolo niente affatto secondario nel corso di un processo. Sono sempre più frequenti, infatti, le sentenze che hanno ammesso le prove costituite da comunicazioni inviate in chat. Anche la magistratura, quindi, si è adeguata alle innovative modalità comunicative dei giorni nostri.
Occhio all’emoji digitata, quindi: come riporta Italia Oggi, le conseguenze possono essere pesantissime. Specie ora che “WhatsApp è diventata una prova regina nel processo civile“. Attenzione quindi al pollice in su (può bastare per accettare le spese straordinarie per i figli, accettare un contratto o il piano di rientro di un debitore!), ai cuoricini (da un cuoricino “adulterino” può derivare l’addebito della separazione, senza contare che gli screenshot insieme alle testimonianze consentono di datare l’inizio della relazione), e così via.
Anche se – va detto – sul tema pende l’incognita privacy:
“Se è certo che le conversazioni fotografate per sempre negli screenshot sono una vera prova non lo è altrettanto sull’utilizzabilità quando le informazioni vengono trafugate dal cellulare altrui. Più facile che diventino validi e utilizzabili nel processo penale dove non vi è la necessità di una prova legale ma il dato, comunque sia acquisito, può essere liberamente utilizzato dal magistrato. Diverso è in ambito civile dove è richiesto un maggiore rigore per tali prove che devono essere legali, nel senso che il giudice non può che dargli un valore prestabilito.“
Insomma: attenzione a quello che si digita, come anche a quello che si registra e si invia. A volte, infatti, l’emoticon (come anche il file audio) diventa una prova..
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