Cassazione e caso Dell’Utri: quando la giustizia diventa un pretesto

Le prime ore dopo la decisione della Corte di Cassazione sono bastate per accendere l’ennesimo incendio politico. Il provvedimento con cui i giudici supremi hanno confermato il no alle misure di prevenzione patrimoniali e personali nei confronti di Marcello Dell’Utri è stato subito interpretato, commentato, distorto.

Da una parte c’è chi lo ha salutato come una sorta di assoluzione postuma per Silvio Berlusconi e per il suo storico collaboratore; dall’altra chi lo ha letto in maniera opposta, tornando a denunciare le responsabilità del fu presidente del Consiglio. In entrambi i casi, si è andati ben oltre il significato effettivo della pronuncia.

È un’abitudine tutta italiana quella di trasformare ogni atto giudiziario in un manifesto politico. Eppure, questa non è una sentenza penale, non ribalta né riscrive la storia: è una decisione tecnica in materia di misure di prevenzione, ossia quegli strumenti che consentono di limitare la libertà o il patrimonio di chi viene ritenuto socialmente pericoloso, anche in assenza di nuovi reati. La Cassazione, in questo caso, ha semplicemente confermato che non c’erano i presupposti giuridici per applicare tali misure.

Il provvedimento

Il provvedimento – depositato il 22 ottobre 2025 – nasce dal ricorso della Procura di Palermo, che chiedeva di sottoporre Dell’Utri a sorveglianza speciale e confisca dei beni, ipotizzando un legame economico stabile con Cosa Nostra mediato da Berlusconi. I giudici della Cassazione hanno stabilito che questo legame non risulta provato in modo concreto e che, di conseguenza, non può fondare una misura di prevenzione.

È una conclusione che non modifica in alcun modo la condanna definitiva del 2014 inflitta a Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa, già scontata. La differenza è sostanziale: quel processo riguardava la responsabilità penale personale; questo, invece, la pericolosità attuale e l’opportunità di limitare beni o libertà a distanza di anni. Due piani distinti, che non vanno confusi.

Il caos

Eppure, il rischio di confusione è sempre dietro l’angolo. Ogni volta che una decisione viene ridotta a slogan o piegata a interessi di parte, si perde il senso profondo della giustizia: non quello di dividere, ma di stabilire confini certi, basati sulle prove e sul diritto.
Sbaglia chi usa queste pronunce per costruire narrazioni di comodo – che si tratti di proclamare un’innocenza totale o di evocare complotti giudiziari. Sbaglia perché nega la complessità dei fatti e il ruolo della legge in una democrazia.

La decisione della Cassazione non assolve né condanna: semplicemente, riconosce l’assenza di presupposti giuridici per misure ulteriori.
È un atto di garanzia, non di indulgenza. E come tale andrebbe letto, al di là delle appartenenze e delle passioni.

Solo quando la politica imparerà a rispettare la distinzione tra diritto e consenso, tra tribunali e talk show, sarà possibile restituire alla giustizia la sua funzione più alta: quella di raccontare la verità dei fatti, non quella di inseguire la moda dei titoli.


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