Una recente sentenza della Corte di Cassazione (35843/2023) ribadisce il divieto di utilizzo di taluni collari antiabbaio. Nel caso di specie, un agente di polizia, a seguito di segnalazioni, aveva rinvenuto un cane disperso verificando che l’animale portava un collare antiabbaio (c.d. “no bark”). Uno strumento provvisto di due pioli di metallo a contatto diretto con il collo, i quali emettevano scosse elettriche ad ogni vibrazione delle corde vocali, con conseguente dolore, così di fatto impedendo al cane di abbaiare.
L’agente aveva verificato che quella funzionalità del collare era attiva al momento del controllo e, rilevando il codice impresso sul collare medesimo (poi sottoposto a sequestro), ha acquisito il relativo manuale d’uso che confermava quell’automatico funzionamento.
Il ricorrente ha, invano, sostenuto che, nella specie, non si sarebbe trattato di un collare antiabbaio, bensì di un collare da addestramento, suscettibile di provocare scosse elettriche (e quindi dolore all’animale) nel solo caso di utilizzo attraverso un apposito comando azionato a distanza. Dal suo punto di vista, la situazione sarebbe stata conforme all’orientamento della Cassazione secondo il quale, per ritenere l’integrazione del reato, occorreva dimostrare il concreto utilizzo dell’apparecchio in modalità produttiva di scossa elettrica con conseguente produzione delle gravi sofferenze inflitte all’animale.
La Suprema Corte ha considerato il ricorso inammissibile. Nella fattispecie la Cassazione ha confermato l’indirizzo secondo cui sussiste contravvenzione di cui all’articolo 727 del codice penale che punisce “Chiunque abbandona animali domestici o che abbiano acquisito abitudini della cattività” ovvero li detiene “in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze”. La Suprema Corte ha evidenziato come, in un’altra occasione, fosse stata ravvisata la sussistenza del ben più grave delitto di cui all’articolo 544 ter del codice penale – vale a dire maltrattamento di animali.
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