Il caso portato all’attenzione della Corte di Cassazione penale riguarda la ricettazione e l’utilizzo illecito di una carta di credito, che aveva determinato nei primi due gradi di giudizio la condanna dell’imputato. Con il ricorso, la difesa contestava in particolare che la vicenda in esame fosse piuttosto da inquadrare nella fattispecie di appropriazione di cose smarrite (reato depenalizzato).

La Suprema Corte, con la sentenza n. 15687/2023, ha dichiarato inammissibile il ricorso, sottolineando come nel caso di specie il bene rivelasse di per sé l’appartenenza ad un soggetto terzo, di conseguenza non avrebbe potuto considerarsi “cosa di nessuno” e non avrebbe potuto configurarsi l’appropriazione di cosa smarrita. Infatti, perché si abbia quest’ultimo tipo di appropriazione è necessario che siano assenti segni esteriori dell’appartenenza del bene; qualora la cosa, invece, conservi tali segni esteriori – è il caso, per l’appunto, di assegni o carte di credito – colui che se ne impossessa senza poi restituirla commette il reato di furto. L’ulteriore circolazione del bene attraverso il trasferimento a terzi implica il reato di ricettazione da parte dei successivi possessori.

Il principio più generale che si ricava è quindi il seguente: qualora, grazie alle caratteristiche dell’oggetto, sia individuabile il suo titolare, chi si appropria dello stesso commette il delitto di furto e non di appropriazione di cosa smarrita, mentre la successiva circolazione causa la contestazione ai successivi possessori del reato di ricettazione, poiché anche loro si trovano nella condizione psicologica di conoscere l’altruità della cosa e la sua origine non lecita.


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